E così sono 12. Dodici fiori sbocciati sulla mia pelle. Ho iniziato a tatuarmi circa vent’anni fa: la prima è stata una margherita. Piccola, discreta, dietro alla spalla destra. Il primo tatuatore è stato Marco, di Bologna, un piccolo studio in via Mascherella, piccolo ma pieno di tutto ciò che serviva: attenzione, gentilezza, professionalità e una mano meravigliosa. Il primo tatuaggio è un atto di fiducia, o almeno così è stato per me: non sapevo esattamente cosa aspettarmi, se e quanto mi avrebbe fatto male, quanto tempo ci sarebbe voluto, quanto ne sarei effettivamente stata felice e per quanto. Uscita dal primo, mentre ancora passeggiavo per Bologna impacchettata nel domopack, ho deciso quale sarebbe stato il successivo. Ero felice, come accade sempre (e ancora) dopo ogni tattoo. Non avevo ancora figli, Pietro e Thomas erano ancora solo in forma di pensiero, non ricordo se fossi già sposata, ma ricordo che quel primo fiore lo avevo scoperto tra le pagine di un libro di grafica che raccoglieva elementi decorativi tra liberty e art decò e me ne ero innamorata. Era assolutamente perfetto. Per me. Mi sono presentata in studio con la mia bella stampa e Marco, penna alla mano, me lo ha ridisegnato sulla pelle seguendo le curve del corpo. Poi, pian piano, o talvolta di corsa, si cresce, si cambia e ho capito che il tatuaggio per me andava oltre ‘quel’ preciso disegno, era qualcosa di più. Sia nell’atto stesso di tatuarmi, sia nello scegliere un artista che interpretasse secondo il suo stile ciò che volevo. E così, passo dopo passo, ho abbandonato stampe e ricerche accurate del soggetto ‘giusto’ e mi sono ritrovata a scegliere semplicemente un fiore e a consegnare l’idea a chi l’avrebbe resa un pezzo d’arte. Sono sbocciati così due crisantemi, due papaveri, un anemone, una peonia, un’ortensia, un fiore di albizia, un ramo di fiori di ciliegio e, da ultimo, un agapanto… in un susseguirsi di stili che dal tradizionale giapponese arrivano all’avantgarde, passando dal grafico e dal realistico, attraverso anche un mandala che di fiorito ha le curve e le simmetrie.
Perché lo faccio? Perché mi piace. Mi piace vedere la mia pelle colorarsi e arricchirsi di disegni che trovo meravigliosi. Mi piace attendere il momento del tatuaggio, vivere la seduta con pazienza ed emozione e osservare un altro pezzo di pelle coperto da disegni e colori. Mi piace vedere la gente incuriosita che si sofferma su un disegno o sull’altro. Mi diverte vedere lo stupore di chi mi conosce in pieno inverno e al primo caldo sembra scoprire un’altra me quando i fiori escono dalle maniche e petali colorati spuntano dai vestiti. E poi mi piace che la mia pelle parli per me, che, ancor prima di una parola, mi tolga dall’anonimato e rispecchi la mia personalità.
Se ogni tatuaggio è associato ad un significato? Sì e no. Nel senso che ricordo perfettamente ogni momento in cui mi sono tatuata e ogni fiore ha il suo significato (sia secondo la tradizione che nella mia personale lettura estetica), ma nessuno dei miei tatuaggi ha siglato un cambiamento o suggellato un patto o sottoscritto una promessa. La peonia è arrivata poco dopo Pietro, rimandata perché scoprii di essere incinta, recuperata un po’ dopo la sua nascita è stata una sorta di rinascita dopo mesi complessi. Il secondo papavero è nato in un giorno di eclissi di luna, ore caldissime, silenzi pesanti, una promessa ‘quasi’ mancata. L’ortensia, fatta a Frosinone (città che a malapena sapevo dove si trovava), un’esperienza in solitaria con Pietro, entrambi in crescita insieme. L’agapanto di sabato, fiore dell’amore, quello assoluto, tra miraggio e possibilità reale da costruire un giorno dopo l’altro. Ogni tattoo si porta dietro l’occasione in cui è stato realizzato ed è diventato tappa simbolica di un percorso di crescita che altro non è che la mia vita.
Se fa male? Eh, in alcune zone sì, anche parecchio, in altre è poco più che un fastidio. Certo la durata del fastidio non è da sottovalutare. Diciamo che un fastidio lungo tre ore si avvicina più al male che al fastidio, ma l’esperienza include anche quello e ciò che si prova fa parte della creazione di qualcosa che in modo indelebile ci si porterà dietro dal quel momento al per sempre.
Ma quanto costa? Una delle domande più frequenti che mi sono sentita porre negli anni. E l’unica risposta che mi sento di dare è che costa la cifra giusta per un’opera d’arte che ti porterai dietro per la vita. E’ il mio modo per farmi un regalo.
Se sarà l’ultimo? Mi scappa da ridere. Non credo proprio, ho ancora così tante cose da dire, da provare, da far conoscere al mondo di me…e ho ancora spazio. Meno di qualche anno fa, certo, ma ancora qualche spazio vuoto rimane e forse di ‘vizio’ possiamo parlare. Credo che il tatuaggio crei dipendenza e ancora non ho nessuna voglia di farne a meno.