Ho amato tre uomini nella mia vita. Fino ad ora, si intende. E nulla toglie a quegli altri, pochi in verità, che a vario titolo sono orbitati nel mio quotidiano, ma sono solo tre quelli che posso dire in tutta sincerità di avere amato profondamente.
Il primo è stato l’amore dei miei diciotto anni. Uno di quegli amori così belli e travolgenti da augurarlo ai miei figli e ai loro amici che transitano da casa mia e si affacciano alla vita e al mondo delle relazioni. L’ho sempre definito il grande amore della mia vita perché a diciotto anni, se ti innamori, non capisci più un cazzo e ti sembra di volare sopra al mondo senza peso. Sono quegli amori che sanno ancora di Big Babol (anche se lui fumava le Lucky Strike e l’amaro del fumo sembrava il sapore più dolce dell’universo), di parole scritte sui muri, di telefonate con l’ansia, di rossori e batticuori. Ero una ragazzina in salopette, con le trecce e gli elastici colorati, con le All Star e gli occhi spalancati sul mondo quando l’ho incontrato e mi sono vista riflessa nei suoi occhiali a specchio. Alto, fighissimo, strafottente al punto giusto da diventare una sfida intrigante quanto impossibile. Eppure a diciotto anni succede anche l’impossibile. Io, studentessa senza macchia di un liceo classico all’ultimo anno; lui, istituto tecnico, bocciato due volte, con la speranza di concludere il percorso scolastico per stanchezza dei docenti. Abbiamo fatto la maturità insieme, era fuori dalla porta del mio esame e io del suo e poi due settimane in vacanza in un villaggio in Gargano dove abbiamo visto il mare una volta sola, ma abbiamo visto le stelle ogni giorno.
Il secondo è stato l’amore della vita adulta. Uno di quegli amori a lenta carburazione, ma che poi diventano consistenti e potenti a sufficienza per portarti in giro per il mondo e mettere su famiglia. Quegli amori nati nelle compagnie di una volta, in cui l’amico dell’amico aveva detto che eri carina e poi finivi per mettertici insieme quando era finita con l’altro amico dell’amico. Quegli amori in cui ci stai abbastanza comodo da abituarti a essere in due senza sentirti troppo stretto, ma anzi protetto a sufficienza per camminare verso il futuro sorridendo. Eravamo poco più che ragazzini in jeans e maglietta, alle prese con la naia, l’università e le scelte importanti. La vita ci ha messo lo zampino e in meno di due anni eravamo fuori casa a cercare la nostra strada, ma sempre insieme. Alla sera, troppo stanchi per fare altro, mangiavamo sul divano. Avevamo amici sempre in casa, eravamo l’isola delle rose dove si chiacchierava fino a notte fonda, si giocava nei panni di elfi, nani e assassini, si mangiava pizza nei cartoni e ci si addormentava col sorriso. Quanto auguro anche tutto questo ai miei figli! La libertà di crescere, ma con la responsabilità delle proprie scelte. E quello era solo l’inizio e non sapevamo che il bello doveva ancora arrivare e che si sarebbe chiamato Pietro prima e Thomas poi. Quando la vita adulta pian piano prende forma nemmeno te ne accorgi e non mangi più sul divano, ma in cucina con un seggiolone a capotavola e anche se sei stanco, come quando a diciotto anni facevi le cinque e ti eri alzato per andare a scuola alle sette, ti sembra assolutamente perfetta così. Ed è perfetta così, perché non vorresti null’altro che quell’insieme di fatica e amore impastati con le mani. L’amore ha una resistenza incredibile, ma non infinita e accade che cambi casa. Senza se e senza ma.
Il terzo è stato l’amore del ‘dopo’. Dopo i diciotto anni e dopo la vita adulta, seppure anch’esso nel pieno dell’età adulta. Uno di quegli amori esplosivi, che brillano come stelle, ma anche come mine se vengono malamente calpestati. Quegli amori che hanno in sé la potenzialità della libertà da obblighi, impegni e progetti a lungo termine, ma che subiscono il peso delle aspettative non soddisfatte dagli amori precedenti. Quegli amori che godono della consapevolezza conquistata con l’età e l’esperienza, ma ambiscono alla leggerezza che solo l’immaturità potrebbe dare. Ero già la donna matura che sono oggi, niente trecce e salopette, jeans e maglietta solo per poco, occhi aperti sulle persone, cuore impegnato con i figli, mente attiva in una costante ricerca di affinamento della mia personale identità. L’ho incontrato sul lavoro, nascosto tra le e-mail e i messaggi, raggio di sole tra le riunioni e gli appuntamenti. E’ stato un tornare indietro, all’adolescenza, alle attese, alle parole lasciate scritte quasi per caso su un foglietto, alle promesse e ai sogni. E’ stato un recuperare una dimensione persa, o meglio dimenticata, nel quotidiano correre che fagocita tutto e tutti. Riappropriarsi delle emozioni e dei propri sensi è un’esperienza inebriante, pericolosa quanto bella perché dà assuefazione e poi ti sembra di non poterne più fare a meno. E allora la maturità se la gioca a tavolino con l’amore e, tra attacco e difesa, ogni pezzo viene ingaggiato a tenere l’equilibrio delle parti, perché in realtà nessuna vuole arrivare allo scacco matto e dichiarar vittoria.
Sono fortunata, me lo dico sempre, guardandomi allo specchio e sorridendo all’immagine che vedo di me. Tra rughe, cicatrici e un carico importante di ricordi il sorriso resta sempre. Avere amato tanto ed essere stata, almeno altrettanto, amata riempie la mia mente di ricordi a cui attingere per dare senso alla mia vita e rende il mio cuore pronto ad accogliere ogni emozione e a condividerla con chi saprà esserci.
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