La paura mi fa paura. Sì, sembra quasi un controsenso, eppure è così. Ritrovarmi in uno stato di terrore e paura mi spaventa forse più di ciò che lo causa, perché la paura mi rende poco lucida, mi fa sentire in una gabbia dove posso muovermi a malapena, mi tronca il respiro. Contro la paura l’unica arma che ho a disposizione è la mia testa e la sua capacità di ragionamento. Della mia testa mi fido, e alla mia testa mi affido, ma quando la paura cerca di essere più forte la lotta è strenua. La razionalità, il senso pratico, il pensiero logico sembrano privi di energie, atterrati e atterriti da qualcosa dai contorni non definiti, ma che mi sembra coprire come una coperta stantia, polverosa e maleodorante tutto, sotto la quale respirare è faticoso perché l’aria deve essere filtrata in mezzo alla polvere, la luce è poca e l’odore (della paura) è nauseante. Avete presente quelle vecchie coperte che ancora si trovano in alcune pensioni al mare, spesse un centimetro, di un colore marrone ocra, con i bordi rivoltati e rifiniti in un raso in tinta? Quelle coperte che nemmeno uscite dalla lavanderia sanno di fresco e pulito… Forse andando indietro nella mia infanzia il ricordo è associato ai pomeriggi in cui all’asilo mi costringevano a dormire, cosa che odiavo e che mi rendeva irrequieta al solo avvicinarsi dell’orario.
La mia più istintiva reazione alla paura è il desiderio di fuga. E la mia fuga è da sempre una sola: un aeroporto (qualunque, chissenefrega) con destinazione New York. Lontano da tutto e da tutti. Viaggio solo andata, con ipotesi di ritorno dopo un anno per vedere come sono andate le cose. Non voglio stare nel mezzo dello svolgimento, raccontatemi la fine, come fosse un film durante il quale mi sono addormentata e che non intendo rivedere. Mai fatto. Ovviamente. Eppure, ricordo precisamente ogni volta che ho visto i contorni di quell’aeroporto e il cartellone degli orari. La sensazione e il desiderio di tapparsi orecchie, naso e bocca e immergersi in un altrove lontano dal qui e oggi.
Poi ogni volta abbandono l’istinto e lavoro al recupero. Un pezzettino alla volta. Ripenso ai traguardi, alle paure sofferte e superate, mi smonto pezzo dopo pezzo e mi rimonto con cura, senza però perdere tempo, se non quello necessario all’attesa, imposta e non aggirabile. Quando la paura è troppa distolgo l’attenzione, penso agli altri, mi dedico all’accudimento, all’ascolto, alla parola, cercando di sentirmi parte di un tutto molto più grande della mia sola esistenza e il cui equilibrio va ben oltre il mio. Quando il mio vacillare mi terrorizza cerco di vederlo come una risposta ad un altro vacillare in senso opposto, che insieme, quasi pezzi di un puzzle, si incastrano e si stabilizzano.
Detesto l’inutilità della paura. Non la paura di bruciarsi che mi tiene lontana dal fuoco, ma la paura che non protegge, ma affossa e rende inermi. Cerco di perdonare a me stessa la fragilità (ma già definendola ‘fragilità’ mi sento di perdonarla, perché la vera parola che userei è debolezza) che incatena la mia mente. Cerco la chiave per lasciarla uscire e riprendere possesso delle mie stanze, un passo dopo l’altro.
Mi ripeto il ‘respira’ che tante volte ho regalato ad amiche che avevano il fiato corto, me lo ripeto come un mantra. Mi concentro sul movimento, l’alzarsi e abbassarsi del diaframma, lavorando sul ritmo. Prima a occhi chiusi, poi con gli occhi spalancati. Quel movimento muscolare mi sembra impastare quella palla che mi si ferma alla bocca dello stomaco e pian piano si ammorbidisce. Un impasto per una crostata, da stendere, tirare e poi infornare a trasformarne colore e sapore? O forse una big babol che si esprimerà in un pallone rosa dolciastro che mi scoppierà in faccia, ma che toglierò con delicatezza e potrò finalmente gettare via? O forse una saponetta che pian piano con il movimento delle mani e l’acqua si scioglierà regalandomi un inaspettato profumo? Qualunque sia la natura, ciò che importa è la trasformazione: quello che è ora non sarà più già domani e andrà sicuramente meglio.
Guardo uno dei tanti tatuaggi che colorano il mio corpo, ‘la vita non sarà mai perfetta, al massimo bellissima’: lo rifaccio mio, lo accolgo, mi abbraccio e respiro.