Non smetto mai di parlare.

Capitolo 256 (Lui, lei e l’altra…o era l’altro?)

Anno 2032, pianeta terra, geolocalizzazione incerta e irrilevante. Sembra Bologna, ma delle due torri non c’è l’ombra.

Vista dall’alto, luci dei lampioni, fermate del bus prive di mezzi, ma occupate da persone evidentemente stanche, macchine parcheggiate in modo solo apparentemente regolare (a ben guardare non ce n’è una parallela all’altra, disturbate dall’irregolarità del terreno).

Truck del piadinaro con illuminazione tendente al giallo. Flusso di persone che avanzano ordinate in un’unica direzione, dove vengono inglobate da una luce di neon e faretti. Entrando sembrano formiche impazzite che si muovono alla ricerca di qualcosa in modo casuale e disordinato.

Bagni affollati, fila in attesa, soffioni in funzione che creano rumore e muovono l’aria calda. Persone che si sorridono come se si conoscessero da sempre.

E’ tardi, la musica inizia, la corsa su per le scale è inevitabile e farsi inghiottire dal buio della sala lo è altrettanto. Torcia del telefono a leggere numeri e file, torcia del telefono a disturbare persone già assorte…anche quelle che hanno occupato i nostri posti. Poco male, ci infiliamo poco più in là in posizione centrale.

Veloce passaggio di camera sul palco illuminato e in pieno fermento acustico, volti felici. Poi lacrime, poi risate, poi parole a squarciagola, sbagliate ma sentite, potrei ma non voglio…o era non dovrei eppure voglio… Applausi, musica che scema, eco del ritmo lontano, flusso a ritroso.

Scale, scale, scale, gradini di corsa, risate, eppure nell’aria c’è qualcosa di strano. Eccolo, non ci credo, eppure. ‘Ma cosa dici?’ ‘Ti dico, ti dico’ ‘Non ci posso credere’ ‘Dillo a me’. ‘Andiamo’, sussurro, ma forse grido. Tanto la gente parla e ride, non sente. E parto veloce, scarto persone, mi infilo negli spazi, mi affido alla bassa statura per non essere vista, non posso perdermi la scena. ‘Ma sei sicura’ ‘Più certa che mai’ ‘Ma non era troppa fatica…o era un impegno al lavoro?’ ‘Era era, adesso però è. Com’era che diceva prima -potrei ma non voglio- o voglio, voglio, eccome che voglio’.

Gli sono alle spalle, guardo verso l’alto, lui si guarda attorno. Teme: probabile, cerca: possibile, non capisce un cazzo: questo è certo. Stringo la mano della mia fidata compagna, cuore a palla, non so se sto respirando, ma l’adrenalina è a mille. Persone che si muovono, però tutti ammassati. Quello spazio minuscolo che rimane non mette distanza tra me e lui. Sento l’odore della finta pelle del giubbotto, è lucida sotto i neon.

Poi si volta. Peccato la mascherina, così mi godo solo la metà della sorpresa. Belle le sorprese, mi piacciono un sacco. Basta un ‘ciao’ per intendersi, non sono mai servite parole per capirsi. Quando ti capisci al volo in un ciao riassumi tutto. Il gaglioffo sussulta, ma mi perdo la scena, ricomincia la corsa, cerco l’uscita, inspiro ossigeno e vado vado vado senza girarmi. E infine uscimmo a riveder le stelle scriveva Dante e mai verso mi è più caro. Novella Dante scesa negli inferi, con il mio fido Virgilio accanto che veglia su di me, respiro e guardo in alto.

La luce del piadinaro è ancora accesa.

‘Ma Gli’ (leggesi Ghli – con la ‘g’ di ‘gatto’) cosa c’era in quella piadina del cazzo? Ho l’impressione ci fosse piombo fuso.’ ‘Ma Lo’, sei sicura di stare bene?’ ‘Sì sì, mi alzo. Ho avuto un incubo’ ‘Ti sei rigirata tutta notte, farfugliavi, parole senza senso’ ‘Sono state le patatine, devo smetterla di prenderle di sera.’ ‘Lo’, ma ti è piaciuto il film?’ ‘Un sacco, Gli’, un sacco. Ma la prossima volta andiamo a mangiare una pizza che è meglio, che poi se no faccio gli incubi’.

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