Non smetto mai di parlare.

Della fede

Come si fa a ‘spiegare’ la fede a chi non ce l’ha? Per me avere fede significa credere nell’esistenza di qualcosa la cui natura, la cui esistenza e il cui operare non sono spiegabili né razionalmente né scientificamente, eppure li ‘comprendo’ e li sento reali dentro di me.

Per me avere fede non significa negare la teoria del Big Bang per spiegare l’origine dell’Universo o la nascita dell’uomo come evoluzione dei primati, ma significa farle convivere con la convinzione che esista qualcosa o qualcuno che sta ‘sopra’ (o accanto, o dietro – poco importa). Trovo la vita e l’essere umano così meravigliosi e complicati, da non trovare sufficiente un processo fisico-chimico-biologico per spiegarne l’essenza. Se il processo fisico-chimico-biologico mi basta per spiegarne l’esistenza, non mi basta per giustificarne la bellezza.

Per me avere fede non significa non affidare all’esperienza e alla competenza dei medici la cura di una malattia e riconoscere loro il risultato, ma significa pensare che ogni momento della vita umana faccia parte di un progetto universale ben più grande della mia singola esperienza e che la linea guida di quel progetto sia l’amore per l’essere umano come cuore pulsante della vita stessa. Ho affidato la vita dei miei figli, in più occasioni, alle menti e mani esperte di medici che dovevano curarli. Sapevo perfettamente che l’individuazione della malattia, la corretta terapia, i tempi e i modi della cura erano nelle loro mani e ho avuto fiducia nella scienza che praticavano e nella cultura che li guidava, ma mi sono comunque trovata a pregare. Pregare un Dio che mi desse la forza di affrontare il dolore, che mi aiutasse a tenere sotto controllo la paura, che, se non troppo impegnato con altro di più importante, buttasse l’occhio anche dalla mia parte a sostenere chi si stava prodigando perché tutto andasse bene. E se alla fine è andato tutto bene, ho ringraziato mille volte chi indossava il camice e ha misurato la febbre, messo flebo, somministrato antibiotici, ma ho ringraziato anche il Dio che ho pregato per il dono di veder andare tutto bene e poter sorridere ancora.

Per me avere fede non significa ritenere che esista un solo modo di credere o un solo dio in cui credere: ciascuno può dare forma, colore, parola diverse al proprio Dio, purché sia nel rispetto degli altri individui, senza sopraffazioni e violenze. Il ‘mio’ Dio ha l’identità che mi è stata insegnata negli anni del catechismo, ma sono consapevole che questo deriva solo dall’abitudine e dal percorso educativo che ho fatto, ma ritenere che in realtà anche il ‘mio’ Dio potrebbe avere forma e sostanza completamente diverse dal mio immaginario, non me lo rende meno vicino… anzi me lo fa percepire più a mia misura perché libero da ogni condizionamento che ne è solo un vestito ma non l’essenza.

Per me avere fede significa essere un po’ più fortunata di chi non ce l’ha, significa avere una risorsa in più nei momenti difficili, significa avere una speranza in più a cui aggrapparmi, significa poter ridimensionare l’importanza della mia vita a fronte di quella di tutti gli uomini proprio perché parte di un progetto comune che supera ogni individualità.

La fede, non è una scelta, è un dono e non è spiegabile con il metodo scientifico, anche se questo probabilmente ne faciliterebbe l’accettazione da parte di chi non ce l’ha. Non sono così brava da praticarla come mi è stato insegnato, sono pigra e poco incline alla forma privilegiando il contenuto. Ne conosco le regole eppure spesso non le ho rispettate e non le rispetto, non vado quasi mai a Messa, non mi confesso da anni, non faccio quindi la Comunione, mi sono separata rompendo il vincolo indissolubile del Matrimonio, eppure dentro di me continuo a sapere che il ‘mio’ Dio c’è e ogni tanto mi guarda e aspetta solo che io lo chiami per ricordarmi che è sempre accanto a me e non si muove di un passo. Forse è una fede imperfetta, che va a braccetto con una pratica altrettanto imperfetta, forse è solo una fede che ho modellato su di me, ma è l’unica che conosco.

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