E’ da un po’ che penso e cerco di rioridinare le idee per scrivere alcune considerazioni e riflessioni sul mondo degli adolescenti. Non mi piace generalizzare, né tendo a fare ‘di tutta l’erba un fascio’, ma indubbiamente ci sono ricorrenze e similitudini negli usi e costumi della nutrita schiera di giovani fanciulli, che mi girano intorno e di cui leggo su giornali e riviste più o meno specializzate, che sono quantomeno lampanti.
Avere quindici anni oggi è un vero casino. E lo è, non solo rispetto a quando noi avevamo quindici anni (trenta o quarant’anni fa…praticamente il paleozoico), ma anche rispetto a quando i fratelli di poco maggiori li avevano. La società e il mondo evolvono con una rapidità incredibile, sfuggono letteralmente di mano e, insieme a loro, i più piccoli e fragili tendono altrettanto a sfuggirci di mano, di mente e anche un po’ di cuore.
Avere quindici anni oggi significa vivere almeno due vite: una reale e una virtuale, che spesso si frantuma in sotto categorie che riportano i nomi di social e mondi virtuali, all’apparenza belli, colorati, ingaggianti e aspirazionali, ma nella realtà dei fatti, mondi più simili a gorghi marini che portano in profondità fredde e buie fatte di grandi solitudini e pericoli. Non è mia intenzione fare una campagni anti-social, perché io in prima persona li uso, pur avendone fatto una selezione e pur cercando di farne un uso consapevole. Io per prima mi trovo talora inebetita davanti a reels che scorrono uno dopo l’altro, quasi fuori dal mio controllo e devo esercitare una forza per recuperare lo sguardo e staccarlo dal display. La sensazione di tempo perso che mi lascia ogni volta che questo accade è estremamente frustrante, per non parlare del senso di abbruttimento che provo, al pensiero di nutrire la mia mente con stimoli di qualità per lo più bassa, ma che generano comunque una forma di dipendenza. Ecco, se questo accade a me, che ho cinquant’anni, sono cresciuta in un mondo pre-digitale, conosco perfettamente la differenza tra ciò che è reale e ciò che è virtuale, cosa succede a ragazzini che trascorrono davanti agli schermi troppe ore o usano applicazioni create appositamente per legarli in modo sempre più vincolante a questi mondi fittizi?
C’è un app, che mio figlio e i suoi amici, come credo tanti altri, usano, che permette agli iscritti (o gruppi di essi) di conoscere in tempo reale la reciproca posizione. Ventiquattro ore al giorno, 365 giorni all’anno tu puoi sapere chi e dove si trova, in modo indiretto quindi anche con chi è e soprattutto se non è con te e tu sei da solo. Agghiacciante. Applicazione di accesso con limiti di età bassissima, dalla quale i ragazzi non si staccano mai, in un’ansia costante di essere dove ‘succedono le cose’. Perché se non sei dove ci sono gli amici, dove c’è il gruppo, tu non sei nessuno.
C’è un app, questa molto più comune, mainstream e successo planetario, sulla quale si pianificano strategie digitali delle più grandi aziende, dove si ingaggiano sfide, si detta la moda, si impara a fare i bulli, ragazzini parlano del loro malessere esistenziale per non sentirsi soli con l’illusione di raccontarsi a degli amici e non a un pubblico pagante al quale poco o nulla importa del contenuto se non in misura del gradimento di gruppo. Sempre il gruppo.
Ce n’è un’altra, che io tra l’altro uso e amo perché la trovo spesso fruttifera di stimoli per il mio lavoro, dove il numero di cuori detta la popolarità di ragazzini e orienta la loro capacità di trovare un senso alla vita. Il tempo di un like è una frazione di secondo, una leggerezza… dal peso specifico dell’osmio. Terribile. In quella stessa app, ci sono le chat, dove chiunque è raggiungibile da chiunque, senza tutele e con giusto poche barriere aggirabili senza alcun problema.
Ma il problema di tutto questo, non è nemmeno nella natura stessa di questi strumenti, quanto nella percezione che i ragazzini hanno di una assoluta realtà di tutto ciò che succede lì dentro. Contenuti, commenti, like: tutto è vita vera, al pari della pacca sulla spalla dell’amico durante la partita a calcetto o della lezione sui banchi di scuola, amplificato per velocità di consumo. Se la nostra giornata dura ventiquattro ore, nella quale possono starci un certo numero di relazioni ‘reali’ con gli altri, lì dentro è tutto moltiplicato per un fattore che non riesco a quantificare, ma che mi rende stremata al solo pensiero. Già lo stesso WhatsApp, con cui comunichiamo abitualmente, ci porta a sovraccaricare il nostro mondo relazionale di contatti costanti, a fronte dei quali la nostra mente rischia di perdere lucidità. Quanto devono essere affaticati gli adolescenti? E’ faticosissimo vivere ai cento all’ora, senza perdere d’occhio nulla perché tutto è ugualmente importante, perché le vite da gestire richiedono presenza e prestanza. A quindici anni o giù di lì.
E in tutto questo la loro struttura biologica continua ad essere quella di ragazzini, nei quali il cervello si sta formando, nei quali le emozioni fanno capolino e andrebbero gestite, ma tutto questo richiede tempo: e loro non hanno tempo da perdere. I dieci secondi di un reel gli insegnano che dieci secondi possono fare la differenza, possono farti diventare una star o un emerito nessuno.
Ma le emozioni sono complesse. A quindici anni poi, le emozioni sono schegge impazzite che entrano dalla porta senza essere presentate. E quindi la noia è mortale, la frustrazione è insopportabile, il dolore inaccettabile, la gioia è orgasmica (ma evanescente). Non ci sono vie di mezzo. E questo è sicuramente una caratteristica dell’età ed è sempre stato così: l’adolescenza è sempre stato quel passaggio in bianco e nero senza tonalità in mezzo, ma noi avevamo il tempo dalla nostra. Il tempo per ascoltarci, per capirci, prendere confidenza con quello che ci accadeva. Loro non hanno tempo, o meglio, hanno secondi: inutili se non dannosi quando si parla di emotività. Quindi succede che la vita fa schifo (e fortuna che a quindici anni puoi permetterti di dire che la vita fa schifo, perché probabilmente un minuto dopo dirai che la vita è epica) e quello schifo lo vedi replicato migliaia di volte nel tuo mondo virtuale.
Mi sembrano esseri senza pelle gli adolescenti di oggi: privi di protezione hanno una superficie ad altissima fragilità. E il mondo degli adulti troppo spesso sta a guardare senza capire, senza fare domande, ma condannando a prescindere. Incapace di riconoscere le proprie colpe, mancanze, difficoltà. Sì, perché la maggioranza dei genitori non ha colpe, ma difficoltà. Lo ha mostrato anche la serie ‘Adolescence’, chissà, magari è servita a farsi qualche domanda in più.
Sono preoccupata per il mondo che si sta configurando e sono preoccupata per i miei figli. Ne vedo le fragilità, ma anche le risorse e cerco di lavorare su quelle. Sono preoccupata di non avere abbastanza energie, costanza, intuizione. Perché i ragazzi, soprattutto in quella età difficile, vanno osservati ogni giorno, da vicino e da lontano, senza mai dare nulla per scontato e soprattutto con una lente su misura del loro mondo, non del nostro.
Per condividere e forse per sentirmi meno sola anch’io.