Ci sono quelli che si girano mentre si allontanano dopo l’ultimo saluto. Mentre ci sono quelli che semplicemente vanno. Fateci caso. E pensate a quale gruppo appartenete.
Io mi giro. Sempre, o quasi sempre. A parte essere quella dell’ultimo, poi ultimissimo, poi davvero basta saluto, quando mi allontano, uno sguardo all’indietro lo dò sempre. Per vedere se la porta è stata chiusa, per vedere se chi ho salutato mi osserva da distanza, magari con il sorriso, per vedere se ho lasciato indietro qualcosa (cuore a parte). Per vedere quell’ultimo istante di relazione che rimane dopo la fine. Quella fine, anche se breve, che sancisce un prima e un dopo, il durante è il momento in cui non si è più in due, quattro, cinque, ma soli. E quel girarmi magari non mi fa vedere il gradino che mi si para davanti e inciampo. Ma è un’abitudine, quasi un vizio. Come quello di non chiudere la porta di casa finché chi è uscito non è salito in ascensore, quasi gli facessi un torto a lasciarlo solo sul pianerottolo nell’attesa dell’arrivo al piano del mezzo che lo porterà fuori da casa mia, del tutto.
Ma capisco chi non si gira. Quella capacità di chiudere e avanti tutta. Si corre, per lavoro, perché si è in ritardo, perché non si vede l’ora, perché tre ‘ciao’, un ‘a più tardi’, un ‘stai attenta’, un ‘ma la felpa l’hai presa?’ sono poi sufficienti. Sì, sufficienti sì, eccome, ma quell’ultimo sguardo è come una carezza. A distanza, lieve, ma piena di tutto l’affetto che le parole non sanno esprimere. Mi sembra come quel piccolo sigillo del ‘prendersi cura’ che è stato tutto il tempo prima.
Banalità, per carità, nulla di sostanziale, un semplice gesto. Un sentimentalismo forse, un romanticismo probabilmente, ma la vita è anche fatta di piccoli gesti, sguardi, attenzioni, dettagli, all’apparenza insignificanti. All’apparenza.