Ci sono quelle maree che senti arrivare. Le senti già da lontano, non sai quando ti saranno addosso, ma hai l’assoluta certezza che ti travolgeranno. A breve. Presto. Troppo presto. E vorresti scappare. Vorresti sottrarti. Vorresti anche solo non saperlo, illudendoti che la sorpresa amara possa almeno salvarti dall’attesa che già fa male.
Succede sempre.
Ogni volta.
Sono lì, sulla spiaggia, chissenefrega se di sabbia, sassi o rocce e attendo. Sento il rotolare della marea a distanza, la percepisco e la vedo dentro di me. La vedo nei lineamenti tirati, nelle lontananze cercate, negli sguardi profondi, la sento nelle frasi smezzate, nelle risposte secche, nelle parole gracchianti, come l’unghia che passa sulla lavagna. La vedo. Vedo la lotta interiore che si innesca, che rotola su se stessa e presto esploderà travolgendo. Me per prima. Me che sono lì ad osservare pronta a ripescare dal fango. Ma non è sufficiente. La marea che arriva travolge le cose una dopo l’altra, una va addosso all’altra e come in un domino ben costruito cadono una dopo l’altra.
La rabbia funziona così.
La rabbia sale, si gonfia, esplode e travolge.
Un corpo che di grosso non ha nulla, sembra arrivare a contenerne un carico enorme, che tracima e colpisce con forza ciò che trova sul suo cammino. E io sono sempre lì. Davanti. Consapevole che arriva, consapevole della mia impossibilità di contenerla, consapevole dei cocci che rimarranno a terra e che raccoglierò pezzo dopo pezzo, come ogni volta.
E non importa che sia giorno, notte, estate o inverno, il mio compleanno o il mio non compleanno. Chissenefrega. Anzi, meglio. Così la marea la vedo bene e mi coglie seduta sulla spiaggia, uno sguardo al sole, un orecchio al lontano rimbombare.
E la marea, la nostra marea, colpisce, affonda e si ritrae. Ogni volta. E chi assiste finisce per guardarmi a distanza, scuotendo la testa, perché potevo spostarmi, anzi dovevo spostarmi, anzi dovevo costruire una diga, anzi dovevo lasciare i cocci dov’erano, anzi dovevo lasciare che la rabbia salisse anche in me al posto delle lacrime e finirla con un tiro di dadi per vedere quale marea era la più grossa.
E così io cado, travolta e travolgo a mia volta cercando di chiudere in un abbraccio tutta quell’acqua che scivola fuori dalla mia stretta, rimango senza fiato per qualche secondo e poi riaffioro per guardarmi intorno e capire da dove ripartire.
Ogni volta.
Ci sono maree che senti arrivare. Perché ha sonno, è stanco, non ne ha voglia, ma soprattutto perché sbagliare fa un male cane e ammetterlo è l’operazione più difficile dell’universo. Così tutta la rabbia che gli sale dentro, verso i suoi errori, le sue difficoltà, le sue fragilità, si scarica fuori. E io quell’insoddisfazione, quella paura, quella fatica la sento sotto pelle, tutta, millimetro dopo millimetro e devo lasciarla scorrere prima di recuperare il controllo e rimettere in fila i pensieri. E prima controllo i danni marginali, mi scuso, mi congedo, mi isolo, perché la marea aspetta solo me. Poi riparto. Ogni volta.
E nel senso di sconfitta che ogni santissima volta provo, nasce, ogni santissima volta, la speranza che sia l’ultima o almeno una delle ultime. E, ogni santissima volta, so invece che dovrò finire sott’acqua ancora centinaia di volte, ma ogni volta un po’ meno e so che devo stare lì, non un passo più in là, perché quella marea ha bisogno di misurare la sua forza e se non ha ostacoli la può misurare solo con se stessa e non si può essere l’unità di misura di se stessi.
Ogni volta dopo sento freddo. Mi devo asciugare. Fuori e dentro.
Con tutto l’amore del mondo.