Sono nata mamma poco meno di sedici anni fa, il giorno in cui Pietro ha mostrato il suo musino al mondo, sollevato da mani attente che lo hanno preso dalla mia pancia e si sono prese cura di lui, piccolo di poco più di un chilo e mezzo. Le mie braccia non sono state le prime che lo hanno accolto.
Sono rinata mamma un po’ più di undici anni fa, il giorno in cui Thomas ha spalancato gli occhi verso di me, dalle braccia di una didi che lo teneva a sé nella sua maglietta fucsia, privo di voce e dubbioso, sicuramente, su ciò che stava accadendo. Anche per lui, le mie braccia non sono state le prime che lo hanno accolto.
Eppure da quei due giorni è iniziata la mia crescita come mamma, in un percorso di apprendimento che ogni giorno porto avanti, imparando cosa lasciare da parte e cosa trattenere, cosa dare e cosa prendere, cosa insegnare e cosa tacere. E le mie braccia sono sempre pronte ad accoglierli, ogni minuto, ogni secondo, pronte e in paziente attesa. Non sempre sono le prime, né saranno sempre quelle che cercheranno e vorranno, ma ciò che loro sanno è che ci sono, aperte e disponibili per loro.
Quando parlo al telefono con Pietro lo chiamo ‘figlio’ e lui mi chiama ‘madre’, ogni cosa sembra ricondursi a quel legame che va sopra a qualunque altra condizione e che ci rende dipendenti l’uno dall’altro in quanto l’esistenza sua di figlio dipende e discende dalla mia di madre, quanto la mia di madre discende e dipende dalla sua di figlio. Senza ansia, senza condizionamenti, senza obblighi, ma nel reciproco rispetto dei ruoli che ci appartengono. E dentro a quel rapporto ci amiamo, discutiamo, ci proteggiamo e litighiamo, come fosse la cosa più naturale del mondo e la più necessaria.
Quando mi infilo a letto e Thomas è già sotto le coperte, perché ancora occupa il mio letto per dormire, mi appoggia la mano sul braccio o sulla faccia e mi augura la buonanotte e talvolta, non sempre, ma talvolta sì, mi dice ‘ti voglio bene, mamma’ e riannoda così i fili di un rapporto che di giorno spesso, non sempre, ma spesso sì, lo fa scalciare e arrabbiarsi perché ne testa la resistenza, tanto quanto ne teme la fragilità. E sotto le coperte torniamo legati nella relazione madre e figlio con la tenerezza di un abbraccio che tutto rappacifica.
E poi li guardo crescere, un passo dopo l’altro. Lineamenti che cambiano, che si modellano per assomigliarmi per poi diventare altro da me, corpi di maschi che si fanno uomini, espressioni che perdono l’ingenuità dei bambini per assumere la consapevolezza dell’età adulta, parole che diventano precise nel descrivere e raccontare, piene di emozioni, talvolta taglienti come lame affilate.
Sono nata mamma poco meno di sedici anni fa e cresco ogni giorno con loro e per loro. Procedo per tentativi, qualcuno riesce meglio, qualcuno riesce peggio, ma la misura del mio operare è nei loro sorrisi che oggi, ancora una volta, vedo abitare le lore facce e illuminare i loro occhi. E di quella luce io stessa sorrido e mi sento felice, anche quando le braccia restano vuote perché sono troppo indaffarati per cercarle e riempirle con un abbraccio.