Sono nata Malavolti. Sì, il mio cognome alla nascita era quello del marito di mia madre, benché fossero separati da tempo e benché lui non c’entrasse nulla nella mia procreazione. Ma i tempi, parliamo di poco meno di cinquant’anni fa, imponevano che da una donna sposata potessero nascere solo figli legittimamente generati dal seme del marito. Cosi, perché io diventassi Zanni e avvenisse la corretta attribuzione di paternità, sono stata disconosciuta e, in capo a qualche mese, riattribuita. L’ho scoperto in mezzo a carte depositate in vecchi cassetti, carte ufficiali di un processo, perché questo è stato, in cui il mio non padre faceva causa a me per disconoscermi e un giudice si ergeva a mio tutore, perché la madre non poteva avere parola, perchè venisse riconosciuto il disconoscimento davanti a testimoni che avvallavano la mia non appartenenza a lui. Ridicolo a pensarci oggi. E anche pieno di dolore inutile.
Mirko, che in capo a pochi anni avrei chiamato ‘zio’ e avrebbe rappresentato un punto di riferimento per la mia crescita, per legge ha dovuto sottoscrivere che assolutamente non mi voleva, non ero sua progenie e non dovevo portare il suo cognome. Renzo, che in capo a pochi anni avrei chiamato ‘papà’, per legge ha dovuto attendere quasi un anno (le carte registrano la conclusione del processo con il riconoscimento della sua paternità intorno a giugno del 1975) perché io fossi legalmente riconosciuta come sua figlia (non legittima, guardate bene, ma naturale riconosciuta). Letizia, che in capo a pochi anni avrei chiamato ‘mamma’, ha dovuto assistere in silenzio, senza diritto di parola e testimonianza, a questo balletto burocratico che mi ha vista prima nata Malavolti, poi di padre ignoto, poi riconosciuta Zanni. Le loro tre esistenze messe nero su bianco nelle carte di un processo che ruotava intorno ad un’infanta di pochi mesi, che aveva come unica certezza quella di chiamarsi Lorenza ed essere al centro dell’attenzione per un cavillo burocratico che ben poco aveva a che fare con l’amore che l’aveva messa al mondo. Perché sì, è vero, Mirko non era mio padre, ma era l’uomo che aveva amato mia madre per lunghi anni e che l’avrebbe ancora amata (senza disquisizioni, vi prego, sulla natura dell’amore in una coppia sposata prima e separata poi) fino alla fine dei suoi giorni con o senza figlia. Anzi, ne avrebbe amato profondamente anche la figlia e di questo gliene sarò sempre grata, perché ha arricchito la mia vita di uno zio affettuoso, generoso e che mi spiegava la geografia e la storia. Perché sì, è vero, Renzo non era marito di mia madre e non lo sarebbe mai diventato, ma era l’uomo che lei aveva scelto per mettere al mondo un figlio e che ho chiamato papà e a cui ho dedicato i biglietti del 19 marzo per molti anni. E’ la parte maschile da cui è disceso il mio dna e a cui devo molti dei miei tratti fisici e parte del mio carattere deciso e determinato, appassionato e irruento. A modo suo mi ha amata, come mostrano le foto di quando, piccolissima, mi teneva tra le braccia con uno sguardo sorridente e sempre lo ringrazierò per avermi trasmesso quel sorriso aperto. E poi c’era mia madre, quella che non poteva parlare, ma che era pronta a rinunciare alla sua vita per la mia, che non aveva esitato a ribaltare le convenzioni e separarsi in anni in cui era ancora un tabù per inseguire il desiderio di un figlio da amare e che mi aveva voluta senza se e senza ma. Ecco, nelle carte di quel processo tutto questo amore non c’è: ci sono solo nomi e soprattutto cognomi, che paiono giusti o sbagliati secondo convenienza. Ma io, quell’infanta del cui bene si prese cura un giudice tutelare, mi trovavo in realtà nel crocevia di tre esistenze, che grazie al loro amore (e non certo per il cognome) mi avrebbero fatta crescere la donna che sono, pur nelle luci ed ombre di quello che talvolta mi è sembrato un romanzo dell’ottocento.