Quando ti guardo e vedo che i tuoi lineamenti cambiano, che perdono la morbidezza di bambino per farsi adulti, quando mi affianchi e ci misuriamo per vedere di quanti centimetri mi hai superata e ricomponiamo gli abbracci per trovare il nuovo incastro che ci lega meglio, quando ti prendi gioco di me per la mia inettitudine, reale o presunta, che ti fa sentire un po’ più grande e un po’ più importante ripenso al punto di partenza e mi ci perdo.
Sei nato il 20/06/2006, una data di nascita che avrebbe dovuto farmi presagire una promessa di cose speciali, la garanzia che sarebbe stato un viaggio mai banale e scontato, pronto a sorprendermi ad ogni svolta. Sì, certo, la natura stessa della maternità lo è, ma con te (e poi con voi, perché tuo fratello non è certo stato da meno) nulla è andato secondo gli standard. Nemmeno il fiocco azzurro alla porta, attaccato due settimane dopo la tua nascita. Sì, saresti dovuto nascere il 26 luglio, il compleanno del papà, ma il mio corpo ha deciso per me e per tutti che era ora che il mondo ti conoscesse. Eri uno scricciolo di poco più di un chilo e mezzo e non ti ho visto quando sei nato e hai gridato al mondo che non saresti stato indifferente… dormivo. Ti ho visto in una foto che papà ti ha scattato, con un ciuccio grande quanto la tua faccina, minuscola ma perfetta, avvolto in una coperta che sembrava enorme, in un lettino di neonatalogia che sarebbe stata la tua casa (e anche la mia) per le settimane successive. Quando sono salita al settimo piano per la prima volta, il giorno dopo la tua nascita, sono entrata quasi in punta di piedi in quell’acquario di cristallo dove tu e gli altri prematuri prendevate confidenza con la vita. Il mio primo pensiero guardandomi attorno è stato che io non sapevo quale fosse mio figlio, poteva essere uno qualunque di quei bambini lì intorno, per saperlo avevo bisogno che qualcuno me lo indicasse…cos’era il legame di sangue? Nulla, la nostra storia iniziava lì, in quel momento. Sì c’erano stati gli otto mesi precedenti, ma io ero stata poco più di una culla termica ultra comfort che si era presa cura della tua crescita per portarti ad avere sufficiente forza e struttura per mettere il naso nel mondo. Adesso veniva il bello. E ti ho visto. Perfetto, minuscolo, con delle dita che nemmeno sapevo potessero essere così perfette in quella dimensione. Eri tu e la vita si aspettava grandi cose da noi due. Ma niente, non era stato sufficiente l’inizio con il botto per farmi capire che tu non saresti stato indifferente e il mio cuore era fatto per spezzarsi e ricomporsi quasi fosse un lego. Ti abbiamo portato a casa il 7 luglio, fiocco azzurro finalmente sulla porta. TI abbiamo riportato in ospedale il 10 luglio, dopo la finale dei mondiali di calcio del 9 luglio…Italia in festa, clacson, urla, fuochi, giubilo di massa e tu che hai pianto buona parte della notte. Pensavo di essere semplicemente incapace di fare la mamma, di calmarti… pappa, cacca, nanna, un ritmo da prendere e conoscere, ma il giorno dopo è arrivata la febbre e l’accesso in pronto soccorso. Paura, spavento. Eravamo abituati alla calma, al silenzio dell’acquario e ci trovavamo in un reparto luminoso e rumoroso. Ci hanno trasferiti in camera e c’era un ragazzino disabile che necessitava di ventilazione durante la notte. Il rumore dei macchinari mi ha fatta esplodere, un pianto a singhiozzo e sono andata a casa, è rimasto papà con te io non ce la facevo. Non ho dormito, ho preparato una sacca e alle 7 ero di nuovo da te e da lì non mi sono più mossa. Dopo due giorni è arrivata la diagnosi di meningite, una doccia fredda che ci ha lasciati senza respiro. Il giorno prima avevi tutte le possibilità del mondo davanti e in quel momento non sapevo più cosa avrei potuto prometterti e assicurarti. Esisteva un prima e un dopo e il dopo che vedevo davanti non mi piaceva per nulla. C’era un tavolo in legno enorme nell’anticamera di neonatalogia dove sei stato subito trasferito, ho passato ore seduta lì sopra e uno dei primi pensieri è stato di scappare e andare a prendere un aereo per volare a New York. Sì, New York è da sempre la meta dei miei sogni di fuga, sarà per questo che non l’ho mai vista veramente, non sono mai fuggita. Volevo andare lontano da lì, sì, anche da te, dal dolore che provavo, dalla paura dell’attesa del futuro, da tutto ciò che mi toglieva il respiro. E’ stato un attimo, che io non potessi muovermi di un centimetro e soprattutto che non volessi farlo mi era chiarissimo. Grazie ai medici tutto è andato poi bene: settimane di antibiotici, visite per scongiurare danni permanenti (mi dissero che l’udito di un orecchio sembrava danneggiato…adesso che gareggi con Flavio che ha l’orecchio assoluto a riconoscere le note rido di gusto). Io e papà dormivamo sul divano. La sera, quando rientravamo all’orario di chiusura del reparto, ci mettevamo sul divano e io non riuscivo ad andare a letto. Mi sarebbe sembrato di abbandonarti, dovevo stare in una condizione di allerta costante. Telefono vicino nel caso chiamassero. Al mattino il terrore di sapere di una notte difficile. Ogni giorno per cinque settimane. Poi è finita. E tu sei tornato a casa veramente. Niente fiocco azzurro questa volta, ma la consapevolezza che il cuore ha la capacità di spezzarsi e ricomporsi, che abbiamo dentro di noi una forza che nemmeno possiamo immaginare quando le alternative non ci sono. Quando mi dici che non sono una mamma banale, sorrido sorniona ben consapevole che nemmeno tu sei un figlio banale. Se è vero (e io ci credo) che noi siamo il risultato delle nostre esperienze, mi domando come sarei se quei primi due mesi fossero stati pizzi, merletti e torte di pannolini. Un’altra me, forse. E forse anche tu saresti stato qualcosa di diverso. Ma come sempre faccio, se guardo al risultato, va bene così, perché sei quanto di più meraviglioso potessi desiderare e sarei disposta a riaffontare tutto, rispezzarmi e ricompormi anche cento volte, guardando le cicatrici come il segno di una vita che chiede tanto ma quello che dà in cambio è incommensurabile.
Ciao Lori,
L’ho letto tutto d’un fiato.
Semplicemente meraviglioso!
Sandra
😍😍😍😍