In due giorni di mare ho letto ‘La neve in fondo al mare’ di Matteo Bussola. Autore scorrevole, non direi eccelso, ma in grado di restituire immagini dai contorni nitidissimi in cui specchiarsi e ottimi spunti di riflessione. Un libro sulla fragilità dei figli e dei genitori (che palle, diremmo un po’ tutti…ormai ‘fragilità’ è un termine usato e abusato in ogni contesto, usato come scusante, attenuante, diagnosi e cura di tutti i mali). Scritto per voce di un padre. E forse è questo a renderlo diversamente nuovo pur all’interno di un tema abbondantemente trattato. E quello che trovo bello è che, per voce di un padre, anche le parole delle madri sembrano diversamente nuove, pur nel contenuto già sentito.
La sofferenza dei figli e la difficoltà di riconoscerla, prima, e accettarla, poi, è il centro del libro. Quella sofferenza che genera disagio, malessere, rabbia, ma anche fame, dipendenza, tagli nei ragazzi. Quella sofferenza che sembra immotivata e irragionevole e che genera disagio, malessere, rabbia, ma anche accudimento spasmodico, controllo ossessivo, odio nei genitori. E se l’odio dei figli è ammesso e ammissibile, quello dei genitori è apparentemente un abominio, eppure. Eppure, solo conoscendo la profondità dell’amore si può comprendere l’altezza dell’odio e delimitarne i confini comprendendone talvolta la necessità.
Ogni coppia del libro, genitore, ora padre e ora madre, e figlio, ora maschio e ora femmina, aggiunge un pezzo al complesso puzzle delle relazioni tra adulti e adolescenti obbligati ad un confronto e ad un reciproco rapporto dalla familiarità che li accomuna. E l’obbligo della relazione, guardate, non è da sottovalutare, perché in certe condizioni è proprio solo l’obbligatorietà del legame che impone il guardarsi in faccia e anche solo odiarsi per il tempo di uno sguardo. Se ne farebbe volentieri a meno.
Come si comprende pagina dopo pagina, uno dei nodi fondamentali è quello dell’aspettativa. L’aspettativa che ogni genitore ha nei confronti del figlio e la capacità dello stesso di soddisfarla o viceversa disattenderla. L’aspettativa che ci assomigli nei tratti, nei colori, nei modi o piuttosto che non ci assomigli affatto e abbia invece quella chioma bionda fluente che la lontana prozia del papà sfoggiava a Viserbella quando sfliava da miss; che sia bravo a scuola, o che ‘almeno’ eccella in matematica, come la bisnonna che faceva i conti a mente ogni sera che chiudeva la drogheria al suo paese; che sia una campionessa di pallavolo o, ancora meglio, nuoto sincronizzato, perché alla mamma sarebbe tanto piaciuto farlo ma ‘ai suoi tempi’ era già tanto se in piscina imparavi a stare a galla; che faccia l’insegnante, perché così potrà occuparsi dei figli senza ricorrere a babysitter e nonni troppo impegnati a riscoprire la loro giovinezza o che partecipi all’ultimo reality di turno così la Marisa la smetterà di farci vedere le foto del pronipote della Graziella che è andato alle selezioni del Grande Fratello e non è stato preso…ma solo perché era troppo bello e sarebbe stato un elemento di invidia nella casa.
Ma anche solo l’aspettativa che sia felice, sempre, comunque, oggi, domani, tra un anno e possibilmente tutta la vita. E non ditemi che ogni genitore non la nutre questa aspettativa. Un sanissimo desiderio, per carità, ma che andrebbe condito con una buona dose di realtà per diventare l’aspettativa che sia abbastanza felice, più volte possibile, ma soprattutto che riesca ad affrontare l’infelicità, riconoscendola come parte di un percorso e non un punto di arrivo, una tappa, talvolta necessaria, ma parte di un viaggio molto più lungo fatto di soste, programmate ma anche impreviste, di cui godere in ogni aspetto. Perché se siamo i primi a pensare che i nostri figli debbano essere felici a prescindere da tutto e facciamo ogni cosa perché la loro condizione sia e rimanga tale, nel momento in cui per sfortuna, attitudine, evoluzione, non lo saranno dovranno confrontarsi non solo con il loro dolore, ma anche con la nostra delusione, che peserà come un macigno e non sarà di alcun aiuto. Anzi.
Difficilissimo. Pensare un figlio infelice è, citando Bussola, come immaginare la neve in fondo al mare: assurdo, impossibile, non reale. Eppure. E’ così reale, che quando ci tocca,ci sentiamo completamente nudi, anzi, privi di pelle. Brucia, pizzica, scotta, fa malissimo e non c’è soluzione alternativa ad immergersi in quella sofferenza per accoglierla e non lasciarli soli ad affrontarla.
Parole che, sotto all’ombrellone, davanti a un’acqua cristallina, hanno tutto il sapore del sale, che brucia, pizzica, scotta la bocca assunto in quantità eccessiva, ma ben dosato dà la giusta sapidità alla vita e può far svoltare una preparazione culinaria in un vero piatto gourmet.