Siamo nel 2023 eppure continuo a vedere, o anzi vedo sempre più spesso, una diseguaglianza di trattamento tra uomini e donne. Ho la consapevolezza di vivere in una società maschilista, ma, ancor peggio, intrisa di maschilismo nelle sue radici, al punto da non renderne nemmeno consapevoli gli uomini (e talora le donne stesse) che assumono comportamenti differenziati in base al sesso di coloro con i quali si relazionano.
Basta. Ho quasi cinquant’anni (sì, un paio in meno, ma mi metto avanti per abituarmi all’idea) e sono veramente stanca, anzi stufa, come si dice dalle nostre parti, di questo atteggiamento ipocrita che inneggia all’uguaglianza dei diritti per tutti, a prescindere dal sesso, dalla preferenza sessuale, dal colore della pelle, dal luogo di nascita, poi cade miseramente nel quotidiano in comportamenti retrogradi e discriminanti. Per essere discriminanti e discriminati basta una parola, non sono necessarie bandiere o enunciati di idee.
Perdonatemi, non intendo fare la parte di quella che si lamenta, ma voglio solo condividere che non ho più la voglia, né la pazienza, di accettare le miserie in cui mi imbatto ancora troppo spesso, perché sono donna. Non dico che siano tutti così, per carità, conosco alcuni uomini che mostrano un rispetto per le donne e un riconoscimento delle differenze in modo critico e consapevole, con i quali è un piacere condividere la vita o pezzi di strada, ma per ciascuno di loro ce ne sono ancora troppi che mostrano, se non una volontà di prevaricazione, almeno una confusione mentale su cosa sia il riconoscimento delle donne come individui al pari degli uomini.
Perché sì, per me di questo si tratta. Essere donna o uomo (e mi perdonino tutte le varianti che oggi rivendicano il riconoscimento e che non intendo prendere in considerazione in queste brevi righe) è una differenziazione biologica che comporta una differenziazione fisica del corpo di due individui che però della stessa sostanza sono fatti. Che di questa differenza la storia e la cultura abbiano fatto una gerarchia di possibilità concesse è inammissibile, lo era un tempo, oggi più che mai.
Quindi
Rivendico il diritto di essere competente, nelle discipline che ho studiato e che pratico, e di veder riconosciuta la mia professionalità al di là delle gonne colorate, dei cappelli con le piume e della labbra truccate. Che la mia immagine arrivi ‘prima del resto’, è un problema di chi guarda, non mio. Il mio lavoro deve essere riconosciuto (e anche criticato o non apprezzato – quando necessario) per ciò che vale e per la sua capacità di rispondere a un’esigenza comunicativa. Non scelgo un font perché mi piace, ma perchè lo ritengo il più adatto ad esprimere i valori di un’azienda o di un prodotto in un determinato mercato e per un determinato scopo. Certo tengo conto del target, che ha preferenze e punti di interesse diversi a seconda della sua composizione, ma rivendico il diritto che le scelte e proposte che faccio vengano valutate per efficacia e non per gusto personale, penalizzate quando non coincido per sesso con il target a cui mi rivolgo. Agli uomini questo non succede. E dopo quasi trent’anni di lavoro sono stanca, stufa anzi, di dover ripartire sempre dall’inizio nel riaffermare la professionalità sulla mia identità di genere. (Ovviamente ho riportato esempi sul mio lavoro, ma il discorso vale a 360 gradi in numerosi – se non tutti – gli ambiti professionali).
Rivendico il diritto di essere fragile, senza che questo mi inscatoli nell’immagine della donna bisognosa di aiuto e sostegno, ma semplicemente mi renda libera di poter soffrire (e renda contemporaneamente liberi anche gli uomini di poter esprimere la loro sofferenza) o di poter avere paura senza che questa fragilità cancelli tutto il resto di potenzialità e risultati raggiunti nella vita.
Rivendico il diritto però anche di essere forte, senza diventare una ‘donna con le palle’, perché delle palle degli uomini non ho bisogno per esserlo. Alcune amiche direbbero che basta la nostra vagina per esserlo, ma non amo ricondurre il dibattito agli organi sessuali che differenziano appunto gli individui che siamo. Rivendico il diritto di venir riconosciuta come individuo intelligente, capace, determinato, solido, a prescindere dal mio sesso.
Rivendico il diritto di non saper cambiare una ruota nella macchina, esattamente come molti uomini che conosco, senza che mi si affibbi l’immagine stereotipata della donna che non ha nulla da spartire con il mondo dei motori. Questo per rispetto delle tante donne che sono magari in grado di farlo e sanno distiguere il radiatore dalla batteria. Ricado semplicemente nella categoria degli individui che non sanno nulla di motori e non sono nemmeno interessati ad approfondirne la conoscenza.
Rivendico il diritto di essere nata madre con la nascita del mio primo figlio e, fino a quel momento, di non aver avuto la più pallida idea di come si cambiasse un pannolino, cosa significasse svezzamento, di non essere stata interessata all’allattamento al seno ed essermi sentita durante la gravidanza poco più di una culla termica ultra comfort per la vita che stava crescendo in me. Rivendico il diritto anche per gli uomini di poter vivere la genitorialità come un’esperienza straordinaria, non indispensabile però per la propria realizzazione, una scelta e non un obbligo, un’opportunità che inizia dal momento in cui ci prendiamo cura di un essere che è altro da noi. Finché la genitorialità passerà in modo pressoché esclusivo dalla biologia, i nove mesi di gravidanza renderanno sempre le donne qualcosa di profondamente diverso dagli uomini in termini di genitorialità. Credo invece che quei nove mesi siano un fatto biologico che differenzia l’individuo maschio da quello femmina e tutto il resto inizi dopo, mettendo alla pari madri e padri (ma di questo ho già scritto). Riconoscere una parità di ruoli permetterà alle donne, finalmente, di amare profondamente il loro bambino, ma desiderare anche di uscire una sera pensando solo a divertirsi, lasciandolo alle cure del padre, senza ansie, timori e sensi di colpa. In questo mi permetto un appunto: una madre non nasce, al primo figlio almeno, dotata di tutte le competenze necessarie all’accudimento, ma le acquisisce autonomamente o supportata cammin facendo: condividiamole con gli uomini, sono individui in grado di imparare le stesse cose e di metterele in pratica con altrettanta competenza. Non siamo noi donne le prime a fare una gerarchia nei sessi.
Rivendico il diritto di non riuscire a trasportare una valigia da 20 chili per più di due metri, senza che questo crei l’illusione che ho necessità di un cavalier servente o un principe azzurro per sollevare me (oltre alla valigia). Se un peso piuma in un incontro di boxe gareggiasse con un peso massimo sarebbe inevitabilmente perdente, ma questo non rende i due individui meno campioni e meno preparati sportivamente, semplicemente le differenze fisiche tra i due corpi, comportano una differenzazione di categoria, non certo di mascolinità. Un corpo è in grado di compiere azioni e sottoporsi a sforzi in base a fattori fisici e di allenamento che prescindono ancora una volta dal genere.
Rivendico il diritto che la femminilità venga riconosciuta come un valore, perché offre una multiformità che rende ogni panorama sociale più interessante. Ci sono donne che ne esprimono in grande quantità, altre che invece sono più sobrie e moderate nello stile e per questo vengono definite mascoline. Ancora una volta, proviamo a trovare categorie che non alimentino la differenziazione tra i sessi come elemento discriminante.
Rivendico il diritto di essere carina, gentile, premurosa, senza che questo mi faccia diventare la sorella o la mamma di qualcuno. Quando trovo un uomo cortese, disponibile e attento non lo immagino come il fratello o il padre che non ho avuto. Evitiamo il gioco dei ruoli e riconosciamoci come individui con specifiche caratteristiche, più o meno gradite e gradevoli.
Ammetto che noi donne dobbiamo essere le prime a non generalizzare sugli uomini, troppo spesso (anche a me purtroppo) capita di riconoscere similitudini che mi fanno arrivare alla considerazione che ‘gli uomini sono tutti uguali’. E’ un importante esercizio quotidiano quello che dobbiamo fare tutti, ma assolutamente necessario per poter arrivare a godere di un mondo in cui le differenze sono realmente valori aggiunti e non elementi su cui costruire gerarchie e scale valoriali.