Non smetto mai di parlare.

Accudimento

Li osservo a distanza. Sono seduta poco più in là, nello spazio riservato alle visite. Ciascuno ha il proprio tavolino con le sedie, a una distanza calcolata per garantire la sicurezza in questi anni malati di CoVid. Li ammiro, in qualche modo. Li invidio, in qualche modo. Li giudico, in qualche modo. Tutte le volte che vado li trovo lì: presenti, accudenti, attenti, meticolosi. Pettinano i capelli, li spazzolano, tagliano le unghie, muovono le gambe, accarezzano e cospargono di unguenti la pelle, ora del viso, ora delle mani, ora delle gambe. Hanno specchi, tovaglioli, forbicine, barattoli di creme, cuscini. Non mi meraviglierebbe vederli dotati di kit da cucito e necessaire da bagno. Sono figli, figlie, mariti, mogli. Sono bravi, così mi sembra talvolta. Sono disperati, così mi sembra altre volte.

Io non ci riesco. Non sono così brava. Non sono così disperata. E nessuna delle due cose mi fa sentire meglio.

Guardo mia madre, la osservo, sempre con una qualche distanza. Già prima della pandemia, la prossimità fisica non ci apparteneva particolarmente; ora, dopo anni di distanza forzata, ci appartiene ancora meno. Le prendo la mano, la accarezzo. Le poggio la mano sulla guancia e tutte le volte mi domando se il contatto è sufficiente: la mia mano leggermente piegata toccherà a sufficienza il suo viso scavato dall’età?

Non ho kit di primo soccorso, nè di ultimo aiuto. Arrivo con giornali da sfogliare insieme…un modo fin troppo banale per non costringermi a chiacchierate prive di uscita. Arrivo con un libro da leggere e allora leggo, leggo, leggo: lentamente, soffermandomi sulle parole, cambiando quelle troppo difficili e creo una bolla nella quale stare comode per qualche minuto, a distanza, ma insieme. E poi c’è il giorno in cui porto una borsetta nuova, un paio di pantaloni da sostituire quelli consunti e allora sì, so che faccio qualcosa di buono, perché li scelgo del colore che ama di più, della stoffa che possa esserle leggera addosso, della forma che le piace…magari simile a quella che abbiamo visto sul giornale insieme. Eppure, forse, non è abbastanza: pettine, spazzola, forbici, creme forse valgono di più di un bel paio di occhiali azzuri con i fiori sulle stecche e qualche parola narrata, seppure con tutto l’amore del mondo. E allora li osservo, sono ancora lì, mai fermi, mai stanchi. Puliscono gli angoli della bocca, mettono teli intorno al collo mentre rifiniscono le sopraciglia, allungano bibite di vario colore e consistenza…il the freddo alla pesca che porto ogni tanto non è nulla al confronto. Li osservo e mi domando se è amore puro, più puro del mio, sporco di anni di contrasti.

L’amore, quel sentimento che ci lega ancora e ci obbliga alla relazione. Sì, ci obbliga, perché se quello non ci fosse sarei altrove, a fare altro, a parlare con altri, a pensare al cielo azzurro e alla cena che mi aspetta. Quell’amore impastato con il senso del dovere, parte del mio dna tanto quanto i capelli neri.

E mentre li osservo mi sembra di vedere la determinazione con cui si prendono cura della vita, ma anche con cui non ne mettono in conto la fine. Inevitabile e talvolta necessaria. E mi domando cosa ne sarà di loro quando tutto questo non ci sarà più, forse riusciranno a riempire il vuoto con la sensazione di aver fatto del loro meglio o forse sarà un vuoto talmente profondo, privati non solo della presenza e dell’amore, ma anche di una quotidianità piena di gesti e attenzioni che riempiono la vita ben oltre i sentimenti, da sentirsi soffocare. Ma a quello non si scappa comunque. Con o senza pettini in mano, con o senza creme spalmate, con o senza riviste sgualcite. Lo so, da sempre.

E allora sposto lo sguardo da loro e lo riporto al nostro tavolino: le foto sparse che raccontano un viaggio fatto, che narrano quanto i ragazzi siano cresciuti, che riempiono quello spazio che va da un’attività di gruppo alla cena, rendendo la giornata meno vuota. Di più non so fare.

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