Non smetto mai di parlare.

La festa del papà

Io non ho un papà da festeggiare e, a dirla tutta, nemmeno il ricordo di un papà da festeggiare.

Quando sono nata mio padre aveva 46 anni, un’età decisamente elevata a metà degli anni settanta per avere un primo figlio. Mia madre aveva invece 38 anni, anche questa un’età decisamente alta per una primipara nel 1974. Quando sono nata entrambi i miei genitori avevano alle spalle una separazione, quindi ex coniugi, ex vite, ex un po’ di tutto. Quando sono nata i miei genitori non erano sposati e non lo sono mai stati. Quando sono nata rappresentavo il sogno più grande di mia madre, quanto a mio padre non lo so.

Quando sono nata non si facevano ancora le ecografie, così che fossi femmina era solo una possibilità, se fossi stata maschio mi sarei chiamata Davide, ma la leggenda racconta che mia madre mi volesse femmina e avesse espresso il desiderio ad una stella cadente nella notte di San Lorenzo. Così sono nata Lorenza. Mio padre si chiamava Renzo. Quando sono nata mia madre ha rischiato di lasciarci la pelle, così i primi mesi a casa è stato mio padre ad occuparsi di me. Ovviamente io non ne ho ricordo, ma ne ho traccia in un foglio con la sua scrittura dove sono annotati peso e visite fatte in modo meticoloso. Poi la sua scrittura ha lasciato lo spazio a quella di mia madre e le note si sono perse nei due mesi successivi. Quando sono nata, sul certificato dell’ospedale, porto il cognome dell’ex marito di mia madre, forse non sapevano che non è necessario essere sposati per fare dei bambini.

Quando sono nata mio padre abitava a Sassuolo con sua madre e veniva a dormire da noi la sera dopo il lavoro, finché non c’è più stato lo spazio per lui. Gliel’ho detto io. Quando sono nata i miei genitori erano già una coppia impossibile, un accostamento improbabile di individui che non avevano nulla da dirsi, io ero l’unico punto in comune, decisamente troppo poco.

Quando ero bambina ho capito che lo spazio per mio padre non ci sarebbe mai stato e d’altra parte lui nemmeno sembrava chiederlo. Quando ero bambina ho capito che non potevo sentire la mancanza di mio padre: quando ho provato a esprimerlo mia madre ne ha sofferto, troppo compresa nella parte di madre/padre e ho deciso che era meglio non parlarne. Quando ero bambina mio padre era quello dei regali di compleanno e Natale comprati nel più grande negozio di giocattoli che avessi mai visto (era l’epoca pre-TOYS) dove entravo e potevo scegliere ciò che volevo. Mio padre intanto chiacchierava con quelli che erano suoi amici e a me sembrava che fosse un momento bellissimo. Quando ero bambina ho imparato a memoria che ero ‘figlia naturale riconosciuta’ e lo snocciolavo come fosse un pedigree. Quando ero bambina mio padre ogni tanto arrivava e altrettanto se ne andava, spesso telefonava ed era il suo modo di esserci. Quando ero bambina non potevo avere la carta di identità valida per l’espatrio, ma il passaporto sì: la burocrazia non l’ho mai capita, io ero sempre la stessa.

Quando ero bambina mia madre mi disse che mio padre aveva avuto un infarto, al quale era comunque sopravvissuto, e mi spiegò cosa significasse clinicamente, poi mi spiegarono cosa avvenne quel giorno per filo e per segno, poi mi misero davanti ai rischi per il futuro e capii che non ce la facevano a trattarmi da bambina, avevano bisogno della mia comprensione. Quando ero bambina una volta mio padre si incazzò terribilmente (era solito agli accessi di rabbia) e mi vomitò l’odio che nutriva, credo per mia madre, dicendomi che lui aveva una moglie e mia madre un marito, prima di me si intende. Lo sapevo già. Ma ricordo la porta a vetri che faceva da sfondo alle sue urla.

Quando ero bambina mio padre mi insegnò che a tutto c’è rimedio tranne che alla morte. Capii che sarei stata diversa.

Quando ero ragazzina mio padre viveva a Modena, in una casa che ancora non sapevo sarebbe stata la ‘mia’ prima casa. Quando ero ragazzina mio padre credo avesse rinunciato a fare il padre, almeno con me. Quando ero ragazzina una volta mio padre venne a scuola, chiese di farmi uscire dalla classe dove facevo lezione, e mi vomitò ennesima rabbia addosso. Nemmeno ricordo il motivo. Ricordo esattamente il posto dove ero. Poi non ne ho più parlato.

Poi c’è stato il silenzio per due anni.

Mi ero abituata a non avere bisogno nemmeno di cercarlo un padre. Poi mi cercò la sua compagna perché era in ospedale per un infarto e andai a trovarlo. Ma quando non parli per due anni e in realtà non hai mai parlato, non sai cosa dirti. Promisi che sarei andata a trovarlo, voleva parlami. Non ci credetti e dentro di me sapevo che non ci sarei mai andata.

Morì una settimana dopo. Era il 5 giugno 1996. Questa volta non fu mio padre a vomitarmi addosso il suo odio e la sua rabbia, ma mia madre.

L’8 marzo del 1997 sono uscita di casa, in una valigia dei vestiti, in un’altra i miei peluche.

Con tutta la comprensione del mondo.

2 commenti su “La festa del papà”

  1. Non ho mai letto nulla di più reale,crudo e profondo che riguardi il ricordo e il senso di appartenenza. Strano, perché di di lettere di bambini divenuti ragazzi e poi adulti ne ho ricevute tante. Mi ritrovo in tante emozioni che esprimi con un quasi distacco. Capisco. Ma poi ricordo la determinazione di tua madre che in te rivedo, positiva, nel rivendicare per i tuoi figli la vita vera che dovrebbero avere. E ringrazio Dio e mi rallegro per questa tua profondità oceanica che ha sconfitto il dolore per guardare avanti. È vero: spesso i figli sono meglio dei loro genitori. Buona vita mia carissima Lorenza. Antonella

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