Non smetto mai di parlare.

Ciao mammola

Attenzione: articolo ad alto contenuto di sofferenza. Leggetelo solo se ne avete veramente voglia e solo se avete il tempo di arrivare fino alla fine. Io scrivo per me e tutto questo per me era necessario, non voglio urtare la sensibilità di nessuno.

La vita, ogni tanto, sembra proprio priva di compassione, cura, pietà e forse anche buon gusto. Da quando ho capito che l’equilibrio era perso, quell’equilibrio che teneva insieme tutto – corpo, mente e forse anima- sono passati quasi trenta giorni, che sono pochi commisurati ad un’esistenza che di giorni ne ha messi insieme oltre 32.352, giorno più o giorno meno facendo un rapido calcolo degli anni bisestili, ma che sono un’eternità quando il tempo sembra rallentare e l’obiettivo unico del vivere è il morire.

Mi sono sentita ingabbiata, per giorni non ho potuto pianificare nulla, ogni programma era rimandato al giorno dopo, in attesa di capire, di vedere, di chiudere questo capitolo e ricominciare a vivere. Il rapporto con te non mi ha mai concesso nulla di facile, mi ha sempre costretta a fare i conti con i miei pensieri, spesso scomodi e poco adeguati al senso comune. Si è vero, tu stavi morendo, ma tu eri mia madre e la tua vita non si riduceva a quegli ultimi venti e più giorni, non potevo, nè volevo dimenticare tutti i giorni della nostra lunga relazione.

Me lo hai ripetuto più volte negli anni che il primo pensiero al mattino era la preghiera a Dio che ti facesse morire e, negli anni, ti ho sempre ripetuto che non abbiamo potere di decisione su quando esaleremo il nostro ultimo respiro (tranne in casi estremi di rinuncia alla vita), ma ti ho anche sempre ripetuto (e promesso) che avrei tenuto bene in mente la cosa e, quando fosse avvenuto, avrei avuto certezza che era stato esaudito il tuo desiderio. Negli ultimi venti e più giorni, finché hai avuto parola e poi sguardo, me lo hai detto con rabbia e con tutta l’energia che avevi. L’ostinazione a rifiutare il cibo è stato il tuo modo per rendere evidente a tutti che avevi spinto il pulsante off e avevi deciso che era il momento per dire basta. Quindi, che oggi possa dire che è stata accolta la tua preghiera ne ho assoluta certezza, pur avendoti mostrato la vita, ancora una volta, quanto poco potere abbiamo noi umani sul tempo, lasciandoti fin troppo in pena e agonizzante attaccata al tuo solo respiro.

Ci sono stati momenti, nei lunghi anni in cui casa era diventata ‘la famiglia del Ducale2’ in cui mi hai detto di essere molto arrabbiata con il Signore, che non ascoltava le tue preghiere e ti lasciava lì dove non volevi stare. Ti ho sempre risposto che l’unica persona con cui dovevi prendertela ero io, che il signore non ha colpe. Non era un atto di buonismo (o finto tale), volevo solo che non perdessi fiducia in Dio, così da non saperti sola quando ne avessi avuto bisogno. Spero che tu ci abbia fatto pace nelle lunghe ore di attesa: tante cose, anzi troppe, sono state una questione che riguardava solo noi due, io e te, tu ed io, noi due sole come è sempre stato, Dio c’entrava assai poco.

Non avrei voluto per te questa fine, come per nessuno la si vorrebbe. Troppo lunga, seppure, in tutti i modi e con tutti gli strumenti possibili, mantenuta priva di ogni dolore. Ma guardarti, più scheletro che essere umano, e osservare l’alzarsi e abbassarsi del tuo torace per ore ci ha obbligate a un lungo commiato. Alla nostra maniera mamma, faticoso, doloroso, fin duro nella necessità di sopravvivere (io) al trascorrere delle ore in un’attesa estenuante di una fine che non arrivava.

Ti ho dato la buonanotte almeno sei giorni sperando di non darti il buongiorno, seppure consapevole che, in anni lontani nel tempo, ti avevo promesso che non saresti stata sola…a meno che non accadesse in piena notte…avevo smorzato la tristezza con la mia solita ironia al tempo, quando c’era ancora spazio per scherzare e cambiare argomento. In questi venti e passa giorni non sono riuscita a cambiare argomento nemmeno una volta e ti assicuro che vivere così prossimi, fisicamente vicini alla morte è complesso, pur standoci in una serenità d’animo che mi ha sostenuta, soprattutto quando ho capito, guardandoti, che la morte non era la cosa peggiore. Viene un momento in cui c’è di peggio, anche molto peggio e purtroppo non sono riuscita a proteggerti da tutto, ma ho fatto del mio meglio. Vivere questo periodo mi ha fatto vedere la morte come un atto naturale e necessario al pari della nascita, organicamente unito al vivere stesso.

Ogni giorno ho pensato a come vestirmi, agli accessori da indossare e a farmi ‘bella’: quanto ti piaceva commentare i miei vestiti e ne discutevamo insieme ed era sempre il punto di partenza per ogni incontro, anche quando la mia bellezza, o presunta tale, era solo il modo per poi dirmi che ero però brutta dentro. Una volta mi hai persino detto che ero un bel contenitore ma vuoto dentro. Ne ho riso, ma quest’idea di non essere mai abbastanza per le tue aspettative è stata una ricorrenza del nostro rapporto, pur consapevole dell’immenso amore che hai sempre provato per me.

Erano anni che ero pronta a questo momento, almeno gli otto da chè siamo arrivati in quella che è stata la nostra casa fino ad oggi, ma la verità è che tu hai iniziato a prepararmi a questo momento sin da bambina, quando mi spiegavi e insegnavi cosa avrei dovuto fare se tu fossi morta: chi chiamare, dove andare, cosa fare dopo. Non mi piaceva pensarci, ma da brava bambina avevo memorizzato tutto e mi sentivo ‘pronta’. Per fortuna la vita ci ha concesso molti anni, a te per vivere ancora, a me per prepararmi meglio.

Poi quando arriva sembra sempre improvviso e imprevisto. Quel momento dopo il quale esisterà per sempre un prima e un dopo.

In uno dei pomeriggi di ‘attesa’ al tuo capezzale, pensavo e ho calcolato che sono circa vent’anni che mi prendo cura di te. No certo, lo so, non è stata una cura costante, ma da quando io avevo circa trent’anni e Mirko si ammalò di Alzheimer i nostri ruoli si sono pian piano ribaltati. Educata al senso del dovere (quanto sei stata brava in questo!) ho sempre saputo quando dovevo esserci, senza ‘se’ e senza ‘ma’. La perdita di Mirko, la depressione, poi la salute che ha vacillato. Quante ore e quante notti in ospedale, a tenere la tua mano per dare modo alle terapie di fare effetto. Ore attese da sola, sempre da sola, mentre ti operavano per l’ennesima volta al femore. Vacanze annullate per starti vicina, Natali passati avanti e indietro dall’ospedale. Ogni tanto ho pensato lo facessi apposta, inizio luglio o inizio dicembre erano I tuoi momenti ‘preferiti’ per avere bisogno di me, quasi volessi ricordarmi dov’era il mio posto e non mi sentissi troppo libera di essere altrove. Scambi con i medici, decisioni prese cercando sempre di fare ciò che era meglio per te. Io e te, tu ed io, fino all’ultimo. Ho controllato le tue terapie, ti ho portato alle visite, ho accettato che la tua mente vacillasse, ho conosciuto badanti, fatto contratti, discusso, fino ad arrivare a piangere davanti ad una sconosciuta, sentendo che dovevo scegliere tra la mia vita e la tua e ho deciso che la tua casa sarebbe stata la struttura che ci ha accolto per otto anni. E uso il plurale non per sbaglio, ma perché le persone che ti hanno accudito sono diventate la tua e la mia famiglia, con i loro sorrisi, le loro parole, le loro attenzioni e anche con gli errori, quando ci sono stati, come in ogni famiglia che si rispetti. È stata sofferenza pura decidere di stravolgere la tua vita, ma non avevo alternative e su questo mi sento di non avere sensi di colpa. Con tutti i limiti del caso ho cercato di darti il meglio che si potesse, pur sapendo che non era ciò che avresti desiderato, se avessi potuto scegliere, ma non eri più in grado di scegliere e io sentivo di dover sopravvivere. E comunque l’accudimento ha solo cambiato spazi e tempi, ma ho sempre cercato di esserci, alle volte in modo forse insufficiente, alle volte in modo ‘diverso’ – a mia misura, ma per certo non mi sono mai sottratta. Il mio dovere era esserci, anche quando mi urlavi di rabbia contro, anche quando riempivi le telefonate di cattiverie, anche quando avrei voluto essere da un’altra parte.

Come in questi dannatissimi giorni. Quanto mi sono arrabbiata: l’ennesimo Natale messo in pausa, ennesimi piani di viaggio annullati, per un’attesa apparentemente senza fine, per te. Rinunciare al godimento di quel riposo che, come tutti, avevo atteso e di quei piaceri che la vacanza offre mi ha fatto sentire frustrata. E poi in colpa per il sentimento stesso. Ma poi nuovamente incazzata. Quanto l’ho sentito ‘ingiusto’, in un egoismo che però non mi sento di aggettivare in modo diverso da naturale e inevitabile. E poi avvilita e priva di parole davanti alla prova che la vita ci chiedeva di affrontare, insieme, per l’ennesima volta lesinando in semplicità, velocità e…morirono tutti felici e contenti. E lo sapevo bene che non era un capriccio tuo la necessità della mia presenza, non lo è mai stato, né un atto ‘giusto’ in quanto figlia, ma ‘semplicemente’ doversoso, senza ‘se’ e senza ‘ma’.

Ho pianto poco in questi venti e passa giorni. Troppo poco, ma non riuscivo a ‘sentire nulla’, quasi mi si fosse anestetizzata la pelle, quasi mi fossi ricoperta di una corazza magica che mi regalava il dono dell’invisibilità. Se sei invisibile nulla può ferirti. Mi sono impegnata, ora dopo ora, a guardare, ma a non osservare nulla. Non volevo che mi rimanesse negli occhi nulla di ciò che altro non era per me che la fine biologica del tuo corpo. Quando la luce dai tuoi occhi è sparita e poi anche la parola è diventata flebile, dentro di me ti avevo già salutata. Quasi terribile a dirsi, ma quanto il corpo sia poco più che un mero contenitore mi è stato così chiaro soprattutto in questi ultimi giorni, che vegliarlo è diventato quasi noioso, un controllo clinico di quelle uniche funzioni vitali rimaste intatte: il battito del cuore e il respiro. Tu non eri già più lì, ti immaginavo in un limbo in attesa di poterti staccare completamente e raggiungere i due grandi amori della tua vita: Mirko e tuo padre.

E nello sforzo di non prendere nota di nulla, di nessun dettaglio, in un atto di tutela verso me stessa per non dover poi combattere con immagini che troppo poco hanno a che fare con te, ma che, per la loro crudezza, rimangono appiccicate troppo a lungo, ho faticato a ‘vivere’ in questi venti e passa giorni. Incapace la mia mente di fermarsi sulle cose, incapace il cuore di aprirsi ad alcun sentimento. Tante amiche mi hanno chiesto come stavo e, non per cortesia, ho sempre risposto loro che non lo sapevo, ed era verissimo: non mi sono data il tempo di ‘stare’ in alcun modo, pur sapendo che stavo attraversando un guado profondo e terribile dal quale uscire sarà tutt’altro che facile. E ciò che più temo è la tenerezza, quel sentimento che arriva in silenzio e apre varchi nel profondo. Allora lascerò scorrere le lacrime e ricomincerò a sentire.

Però prima dovrò disintossicarmi dagli odori e dai rumori che hanno accompagnato questi giorni: quella madeleine proustiana che rischia di farmi sobbalzare non di piacere, ma di terrore riproiettandomi in quel tunnel buio che abbiamo attraversato insieme.

Stando al tuo capezzale per ore prima e per giorni poi mi sono sentita un avvoltoio, in guardia, in attesa che la preda puntata e ferita morisse così da avventarmici sopra. E mentre progettavo e pensavo al tuo funerale, per non essere impreparata e cercare di gestire tutto nella maniera migliore e, questa volta sì, più veloce possibile, mi facevo quasi schifo. Non ero piegata in due dal dolore, non piangevo fiumi di lacrime e ragionavo sul vestito da farti indossare, sulla cerimonia e sui tempi…da incastrare con tutto il resto della vita. Ma sei pazza, mi sono detta, cosa vuoi incastrare la morte di tua madre con il resto della vita? Sì, mi sono risposta. Senza ‘se’ e senza ‘ma’. Io e te, anche se la tua capacità di rimozione è sempre stata per me sorprendente, sappiamo che era ‘giusto’ così.

Mille volte mi sono immaginata il nostro saluto, pensandolo come nei film a un momento di rivelazione di segreti ancestrali, dichiarazioni di amore profondo, espiazioni di sensi di colpa e perdoni non dovuti, ma ottimo compendio di una vita che si spegne. Nulla di tutto questo. Ti ho accompagnata leggendo le favole di Natale. Quanto ti sono piaciute le avventure del topolino Winston alla ricerca di Babbo Natale! Poi, quando non so nemmeno se ascoltassi e mentre contavo i secondi tra un respiro e l’altro, ci sono state le avventure del Grumpus e poi di Clara, Fritz e dello schiaccianoci Walter. Favole da bambini, ma proprio per questo magicamente rasserenanti come una ninna nanna cantata con voce tenera, quelle che piacevano a noi. È stato il mio lungo addio e l’unico modo che ho trovato per raccontarti il mio amore, imperfetto ma reale.

Mi mancherai? Ma, soprattutto, mi mancherai più di prima? Più di ieri, di un mese fa, di due anni fa? Mi manchi da tanto e, ancora peggio, mi è spesso mancata una madre che non ho nemmeno mai avuto. Quindi, sì, mi mancherai, ma ho imparato a conviverci e, il più delle volte, a passare oltre.

La potenza di quello che ci ha legate per una vita credo non sia comprensibile. Molto più di un rapporto madre-figlia, un gioco delle parti quasi perverso che mi ha fatta crescere presto. E proprio l’essere la tua unica ragione di vita, fonte quindi di gioia ma soprattutto dolore profondo ogni volta che non aderivo all’immagine che ti eri fatta nella testa, mi ha resa presto indipendente, ma con il carico di prendermi cura di te, perché avevi bisogno di me, anche quando avrei voluto essere da tutt’altra parte, perché, come spesso hai ripetuto seppure dimenticandotene al bisogno, eravamo solo io e te.

Ora dovranno passare due giorni di pratiche burocratiche, cerimonie, commiati pubblici, saluti di circostanza, me li risparmierei. Quanto sarebbe bello se, una volta completato il proprio ciclo terreno, una volta resi tutti consapevoli di tale fine, il corpo semplicemente svanisse in una festa di piccole luci e stelle brillanti. Niente scelta di bara, loculo, orario, avviso, parole da scrivere, foto da scegliere, semplicemente una trasformazione del corpo in qualcosa di immateriale, che celebri la partenza dell’anima. Perché io so che oggi tu sei felice, finalmente libera. Nulla mi farà mai pensare che tu sia in quel corpo privo di vita, nel quale peraltro nemmeno ti riconosco, così privo di espressività. Quindi, ancora una volta, farò ciò che è mio dovere fare e farò in modo di farlo al meglio come meriti che sia per te.

Buonanotte mamma. Con tutto l’amore del mondo.

2 commenti su “Ciao mammola”

  1. Lory cara, mi sono ritrovata in tante cose. Difficile essere figlie, difficile smettere di esserlo. Un abbraccio grande

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